La medicina narrativa

LA MEDICINA NARRATIVA

 

Nella pratica di tutti i giorni incontrare la sofferenza significa incontrare la storia di una persona, fatta non soltanto di ansie e frustrazione ma anche di speranza e fiducia.

Il farmaco più largamente usato in medicina è il medico stesso: al di là della prescrizione di pillole e gocce, conta il modo in cui egli si offre alla persona malata, conta l’atmosfera che riesce a creare con il suo paziente (Michel Balint 1957). L’essere umano è per natura dotato di “abilità narrative”: capacità di ascoltare, leggere, parlare, scrivere… Per chi si occupa di assistenza medica queste abilità risultano oggi un poco dimenticate.

Le difficoltà relazionali che il medico incontra durante l’esercizio della sua professione hanno radici nei percorsi formativi universitari, ancora oggi poco sensibili nel valutare il malato nella sua globalità. Tuttavia, bisogna riconoscere che esse vengono anche alimentate dal continuo processo di modernizzazione della Medicina, con la possibilità di effettuare indagini sempre più sofisticate che permettono di formulare diagnosi con maggior facilità e precisione a scapito di un rapporto interpersonale sempre più ridotto.

La raccolta accurata della storia del paziente e la visita medica tradizionale vengono così progressivamente sminuite e, quasi accantonate. Ciò nuoce profondamente alla dimensione psicologica e relazionale del rapporto medico-paziente.

Eppure, in questi ultimi tempi, sta avvenendo un cambiamento.

Si nota una maggiore sensibilità verso “la persona”, verso il recupero della dimensione umana di questo rapporto in cui il medico si prende cura dell’altro, si fa carico della storia del suo paziente, del suo dolore, del suo vissuto e delle sue speranze. Bisogna superare il modo di cura tradizionale in un progetto che trasformi il “curare” con il “prendersi cura” e che trasformi il paziente da semplice oggetto a soggetto della relazione terapeutica.

E’ ben noto come la reazione della mente di fronte a patologie croniche e invalidanti possa avere una notevole influenza sul decorso della malattia e sulla qualità della vita.

Nel momento in cui ci prendiamo cura della persona è necessario riflettere sui valori della propria professione, sulla propria capacità di instaurare relazioni di fiducia, con una tenacia e una sensibilità che maturano con gli anni, proprio in seguito all’incontro quotidiano con la sofferenza.

Questo nuovo modo di vedere il rapporto medico/paziente è il fondamento della “Medicina narrativa”, che non è una nuova branca specialistica della medicina, bensì ne rappresenta il nucleo stesso.

Fondatrice di questo concetto di Medicina è la Dottoressa Rita Charon, della Columbia University, di New York, che la definisce “Medicina praticata con le competenze che permettono di riconoscere,recepire, interpretare la storia della malattia e di sapere reagire ad essa”. E’ proprio questo il vero modo di avvicinarsi al paziente e di instaurare con lui un rapporto di reciproca fiducia.

Normalmente le difficoltà di comprensione che si genera fra medico e paziente nasce dal fatto che il medico è portato a cercare soltanto la malattia, la patologia, la causa del disturbo (il male), mentre la persona che soffre racconta anche un’altra sofferenza, quella interiore, strettamente connessa con la sua storia di vita.

L’errore maggiormente frequente in cui incorrono i medici “frettolosi” è quello di porre al paziente una raffica di domande, andando alla ricerca della conferma di ipotesi diagnostiche, prescrivendo indagini, che, molto spesso, impiegano settimane o mesi ad essere effettuate. In tal modo essi trasmettono involontariamente al paziente una prospettiva di giudizio dettata dal “non esserci” con conseguente “fallimento empatico”.

Dal punto di vista psicologico, prima ancora di usare le parole, il medico deve parlare tramite se stesso, con il suo modo di esserci e di agire, con la capacità di ispirare fiducia e di trasmettere ottimismo e speranza. La comunicazione “non verbale” deve essere naturale, immediata ed istintiva, e, quindi “umana”, per definizione. Il compito del medico deve andare ben oltre la diagnosi clinica, e, quindi, egli riuscirà ad andare tanto più in là quanto più sarà in grado di liberarsi delle sue difese e di lasciarsi permeare dalla sofferenza del suo paziente. Lo stato di malattia, infatti, altera in modo sostanziale le abitudini, le relazioni umane e i desideri più semplici, e suscita quindi sofferenza interiore. La malattia rappresenta per molti un vero e proprio distacco dal proprio corpo sano, dai propri cari, fino a stravolgerne l’esistenza.

E, per finire, ecco le parole che tutti noi vorremmo poter sentire:

“Grazie Dottore… Grazie per le sue parole e per la sua presenza:

parole e presenza che colmano voragini di sofferenza e che rendono più breve la notte e più leggero l’affanno”.

 

Dr. Mario Pavia (Medico Chirurgo specialista in Cardiologia)

 

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